Catanzaro - Fu una delle "battaglie" più appassionate di Federico Zeri. Una "battaglia" contro tutta l’archeologia ufficiale che aveva in prima fila Margherita Guarducci, la mite epigrafista che aveva individuato la tomba di San Pietro nelle Grotte Vaticane e che si rivelò una tigre nel difendere il pezzo contestato da Zeri, ed anche Pico Cellini, lo scopritore e restauratore di Caravaggio, cacciatore di clamorosi falsi etruschi in musei americani (Metropolitan). Ma per Zeri era diventato un punto di orgoglio e una grande tentazione rendere convincente da par suo la tesi di un chiacchierato antiquario americano che mandava all’aria la tranquillità degli archeologi. La tesi? Uno dei pezzi più gloriosi del Museo nazionale romano, il famosissimo "Trono Ludovisi" con la nascita di Afrodite dal mare, invece di essere un tesoro della Magna Graecia del V secolo avanti Cristo, era un falso ottocentesco. Per due mesi, aprile-maggio 1988, se ne occuparono giornali e televisioni in Italia e all’estero fino a quando, in attesa delle prove "oggettive" e non "impressioni" della falsità reclamate dagli archeologi e dalla soprintendenza di Adriano La Regina custode del "Trono", il tutto si sgonfiò.
Oggi quel tesoro è il pezzo più importante di una mostra importante che il calabrese Salvatore Settis, dall’antica natale Medma a direttore della Scuola Normale di Pisa, ha voluto a Catanzaro, nel complesso monumentale di San Giovanni (dal 19 giugno al 31 ottobre). Titolo "Magna Graecia. Archeologia di un sapere" perché "non è tanto la storia della Magna Graecia, quanto la sua graduale scoperta dal Settecento in qua". Attraverso collezioni locali ed europee, figure fondamentali di archeologi fra Ottocento-Novecento (i "fondatori" come Paolo Orsi, Quintino Quagliati, Umberto Zanotti Bianco, Paola Zancani Montuoro), le ricerche di oggi con le scoperte più recenti. Il materiale miceneo di Roca Vecchia sulla costa adriatica davanti a Lecce, mai prima presentato e una delle grandi sorprese della mostra. I corredi della necropoli di San Montano ad Ischia, ugualmente inediti come l’elmo di tipo corinzio, lo scudo circolare, le punte di lancia, le statuette dalle tombe di Baragiano e Policoro in Basilicata.
Era tempo di una mostra sulla Magna Graecia e in Magna Graecia considerando che quella precedente, "I Greci in Occidente", si è svolta a Venezia, Palazzo Grassi, nel 1996. E Salvatore Settis (con il coordinamento scientifico di Maria Cecilia Parra) ha saputo mobilitare tutte le forze disponibili, dall’università di Catanzaro"Magna Graecia" alla Regione, agli enti locali, alle soprintendenze, alle banche. Imponente e insostituibile per i tanti specialisti e i materiali, il catalogo Electa (475 pagine). L’eccezionale lunghezza dell’apertura fa sperare di raccogliere le briciole delle centinaia di migliaia di turisti nella moderna Magna Graecia. Per compensare l’eccentricità di Catanzaro.
Decisamente la mostra più esaustiva sulla Magna Grecia mai organizzata al Sud. Forse sovrabbondante (rischio di dispersione), con 800 pezzi fra cui molti usciti per la prima volta dai depositi o restaurati per l’occasione. Tavole in bronzo con cui si apre la mostra (le due di Heraclea scoperte nel 1732 nel greto di un torrente, con testi dorici e latini). Teste, busti in argilla. Ceramiche dalle infinite applicazioni e forme (attica a figure nere o rosse, apula a figure rosse). Sculture e bronzetti. Da Paestum una metopa del santuario di Hera (scoperto da Zanotti Bianco e Paola Zancani alla foce del fiume Sele, dando più retta a Strabone che a Plinio il Vecchio). Tavolette votive di argilla dai santuari, cioè le "pinakes". Placche di argilla, oro e argento. Statuette in oro. Figurette in avorio con applicazioni in oro. Armi e armature. Gioielli (oro e pietre dure, di Taranto soprattutto, purtroppo anche provenienti da Berlino via Svizzera). Rilievi e fregi di monumenti fra cui le grandi decorazioni in arenaria del tempio di Hera. E materiali le cui funzioni non sono ancora chiarite. Le foglie d’ argento, bronzo, ferro, di forma lanceolata e con un foro di sospensione che non si sa se sono offerte a Demetra Thesmophoros, semplici lamine o pugnaletti. C’è anche una parrucca, di statua. In bronzo fuso, patinato e cesellato, datata al V secolo avanti Cristo. Alta 16,5 centimetri, lunga 27, pesa quasi sette chili e mezzo. E lavorata con ciocche sottili leggermente ondulate, e circondata da un sottile ramoscello di alloro con una serie di forellini in cui si innestavano foglie di rame, argento o d’oro. Contro tutti i desideri degli archeologi non si adatta alla bellissima testa di Apollo esposta.
Il titolo della mostra può forse risultare un po’ aulico, ma la mostra si rivela piena di emozioni. La prima coinvolge noi tutti, quando qualcuno ricorda che alla Magna Graecia apparteneva la Calabria che nella parte estrema, a Sud dei golfi di Squillace e di Sant’Eufemia, all’altezza di Vibo Valentia, aveva nel V secolo avanti Cristo e forse prima, il nome di "Italía" che si estese alla Puglia e alla Campania e poi con Augusto a tutta la penisola.
Una emozione nasce da una sottilissima lamina d’oro di appena 3,2 per 6 centimetri, più volte ripiegata e trovata sullo sterno di una defunta nella necropoli di Hipponion (Vibo Valentia), della fine del V, inizio IV secolo. E la cosiddetta "Laminetta orfica" simbolo della religiosità salvifica in Magna Graecia. In testo greco sono incise le istruzioni che la defunta dovrà seguire per ottenere la "felicità eterna". Dopo essersi presentata ai custodi di Ade "dovrà bere alla fonte della memoria e non quella dell’oblio perché solo la fonte di Mnemosyne è viatico di salvezza e di beatitudine".
Ma ci sono anche le emozioni suscitate dalla bellezza. Come l’Acrolito di Apollo da Cirò Marina, come il "Kouros" di Reggio Calabria, come la minuscola testa femminile dai capelli d’oro da Locri Epizefiri. Scavato da Paolo Orsi nel 1924, l’Acrolito si compone della testa alta 41 centimetri (quasi intatta, dalla bellezza distante con quelle orbite vuote per la perdita degli occhi), dei piedi, della mano sinistra frammentata. In marmo greco bianco, con alcune sfumature di azzurro. La tecnica acrolitica permetteva di rendere gli dei più vicini alla realtà quanto a fisionomia, attributi, abbigliamento. Le parti scoperte come testa, mani, piedi, braccia (le uniche in marmo o pietra), venivano completate con materiali di legno, ma anche gesso, stoppa, creta, muratura dipinta, e ricoperte con abiti di stoffa, lamine metalliche, parrucche. Per risparmiare il marmo che scarseggiava in Magna Graecia e per ottenere immagini di culto quanto mai impressionanti. Una tecnica ripresa dalle chiese calabresi quanto a Madonne e santi di legno da portare in processione, come ricorda il Corrado Alvaro bambino impressionato davanti a una di quelle statue mentre le cambiavano i paramenti. A parte la testa tutto il resto era un insieme di assi.
Il "Kouros", forse un giovanissimo offerente, forse un atleta vittorioso, ha invece una bellezza quasi beffarda con quel sorriso (il "sorriso arcaico") sotto una "raffinatissima capigliatura dal colore rosso tendente al ruggine, simile a una calotta di riccioli sovrapposti, del tipo a lumachella". E il pezzo entrato proprio all’ultimo in mostra perché ha dovuto attendere la perizia dell’Istituto centrale del restauro per lo spostamento dal Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria (quello dei bronzi di Riace). In marmo statuario pario, nudo, con il dorso "più plasticamente trattato", è alto 90 centimetri avendo perso le gambe sotto al ginocchio. Mancano il braccio sinistro e l’avambraccio destro. Le analogie stilistiche lo collegano all’Eubea.
La testa femminile dai capelli d’oro viene dal santuario di Persefone a Locri Epizefiri, datata intorno alla metà del V secolo avanti Cristo. Di argilla arancio, alta appena 6 centimetri, è stata riconosciuta recentemente come parte di un vaso plastico, un "rhyton", a forma di sfinge seduta, della produzione del vasaio ateniese Sotades.
E poi l’emozione della bellezza del "Trono Ludovisi". E la seconda volta in assoluto che il "Trono" si sposta dal Museo nazionale romano ora a Palazzo Altemps (la prima fu per la mostra di Venezia dove venne messo a confronto con l’ altro "Trono di Boston", una specie di pendant, questo sì in grande sospetto di falso ottocentesco). Per la prima volta il "Trono" torna in Calabria. Dopo aver detto che il "Trono Ludovisi" "rappresenta l’epressione più alta e poetica dell’arte magnogreca", nel catalogo vengono spese pochissime parole per ricordare la vicenda di 17 anni fa: "è stata persino avanzata l’incredibile ipotesi che si trattasse di un falso (Zeri)".
Scoperto a Roma, una domenica senza testimoni del 1887, nei lavori di Villa Ludovisi (nella zona corrispondente agli Horti Sallustiani) divenne subito l’emblema della collezione Boncompagni Ludovisi. Il "Trono" , in marmo dell’isola di Thasos, viene datato al 465-455 avanti Cristo e dovrebbe provenire da Locri Epizefiri, dal santuario dedicato ad Afrodite. Ne era convinta Margherita Guarducci che aveva studiato il "Trono" e trovato che le misure (lunghezza 144 centimetri, altezza 94 e profondità 72) corrispondevano al centimetro con la fossa che si apriva nel pavimento della cella del tempio. La denominazione di "Trono" viene dall’errata interpretazione di essere il sedile di una statua colossale di Afrodite mentre si tratta di un trittico con al centro la nascita della dea della bellezza dal mare di Cipro. Afrodite dalla finissima acconciatura, vestita di un chitone bagnato che lascia vedere i seni "discosti", viene aiutata ad emergere dalle braccia di due giovani donne con vesti dalle mille pieghe (mutilate della parte superiore) e con i piedi su piccoli ciottoli . Le donne tendono anche un velo, quasi un sipario su quell’atto sacro che si concede agli umani, forse dipinto come un cielo stellato.
Nelle lastre ai lati sono state identificate, a sinistra, una flautista nuda, una prostituta sacra, con le gambe accavallate in una posa naturalistica che aveva scatenato il sarcasmo di Zeri; a destra una giovane sposa avvolta dal capo ai piedi in un mantello, che sparge incenso su di un braciere. Le figure possono essere anche sacerdotesse.
Il trittico era con tutta probabilità il parapetto della fossa che si apriva nel pavimento della cella del tempio e destinata a conservare arredi preziosi e doni votivi, ma anche ad attuare un coup-de-theatre durante i riti e cioè l’apparizione della dea (un simulacro o una sacerdotessa), fatta emergere con una pedana-ascensore di legno.
Alla mostra sono riservate due novità assolute. La prima, con i materiali anche drammatici di Roca che fanno galoppare le emozioni, ci trasporta all’età del Bronzo, dal XV all’XI secolo avanti Cristo. Frutto delle ricerche, tuttora in corso, dell’università di Lecce, "legittimano la speranza" che la penisoletta di Roca, fra San Cataldo di Lecce e Otranto, possa "divenire un osservatorio privilegiato per lo studio dei rapporti tra l’Italia e l’Egeo nell’ Età del Bronzo". Qui è stato trovato un potente sistema di fortificazioni che "non trova adeguati confronti nel panorama indigeno per le dimensioni imponenti, la complessa articolazione della porta centrale e la sofisticata combinazione di murature in pietra e palificazioni lignee". C’è invece affinità con modelli egei e vicino-orientali. Fortificazioni potenti, ma non abbastanza per resistere ad un violentissimo incendio, probabile epilogo di un assedio come osserva Cosimo Pagliara. Sotto le murature crollate sono stati trovati nove scheletri: "in assoluto una delle più antiche testimonianze antropologiche di un’azione di guerra di tutta la protostoria mediterranea". Otto civili (cioè che non avevano preso parte alla difesa) e il nono, un giovane uomo trovato con una ferita da arma da taglio e accanto una microscopica anatra (tre centimetri) ricavata nell’avorio del canino di un ippopotamo e una lama di pugnale di bronzo (entrambi in mostra).
Strette affinità con altari a terra diffusi nell’Egeo e nel Vicino Oriente sono state trovate in piattaforme di argilla in una enorme capanna-tempio. Coltelli di bronzo, grandi quantità di ossa di animali, una piattaforma con accanto una vaschetta, ripetono quanto è stato trovato in un tempio di Micene dove le vaschette raccoglievano il sangue delle vittime sacrificali. Vassoi di ceramica a impasto, a tre piedi, anche queste senza confronti nel mondo indigeno "sembrano repliche fedeli delle cosiddette tavole per offerte diffuse in tutto l’Egeo", altari mobili che si trovano in particolare nei santuari e nelle tombe minoiche.
Ma le sorprese della capanna-tempio non sono finite. Nel pavimento sono stati scoperti due ripostigli pieni di manufatti d’oro, avorio, bronzo, pasta vitrea fra cui
sei dischi d’oro del Bronzo Finale, XI secolo. "Dischi solari" del diametro di 9,8 centimetri con uno spessore inferiore al millimetro, decorati a cuppelle e nastri puntinati, a sbalzo, dal rovescio. Una decorazione con barche solari stilizzate identica a quella trovata in un santuario miceneo di Delo. E sul pavimento, in mezzo ai frammenti di oltre 500 vasi di ceramica d’impasto, un altro "unicum" per l’Italia del Bronzo: una doppia ascia e occhio biconvesso, che riproduce prototipi egei (cretesi o continentali), databile anche questa al Bronzo Finale. Nel mondo minoico la bipenne è lo "strumento principe del sacrificio cruento e simbolo divino di palingenesi".
La seconda novità (uscita dai depositi) è la maggiore concentrazione di epigrafi greche antiche, oltre 40 iscrizioni vascolari quasi tutte graffite, datate fra la seconda metà dell’VIII secolo e i primi decenni del VII, scoperte nella necropoli di San Montano ad Ischia (Pithecusa). A diffonderle sono stati gli eubei, i primi fra i greci a fondare colonie in Occidente e a diffondere nel Mediterraneo l’alfabeto ricevuto dai fenici e modificato secondo le esigenze della loro lingua. In un orlo che è quanto rimane di un cratere, è stata trovata la più antica firma di vasaio nota dal mondo greco (725-700 avanti Cristo), un nome incompleto (forse Kratinos).
Le emozioni nascono anche da una testina in pietra calcarea di un fregio ionico, del sesto secolo avanti Cristo, e da un frammento di una statuetta femminile in terracotta di stile dedalico, del VII secolo. Sono infatti due delle prove che permisero a Zanotti Bianco di individuare finalmente nel 1932, nella piana acquitrinosa del Crati che si stava prosciugando, la celeberrima Sibari, la colonia fondata dagli achei entro fine VIII secolo, diventata ricchissima e, secondo tradizione, raffinatissima, distrutta dagli invidiosi crotoniati nel 510. Con Zanotti Bianco si concludeva la cinquantennale ricerca moderna di Sibari, un merito che gli fu riconosciuto solo trent’anni dopo perché l’appassionato ricercatore (non un archeologo patentato) era un sorvegliato speciale dalla polizia fascista e subito dopo la scoperta dovette abbandonare gli scavi per il confino.
Ancora dunque una forte emozione per chiudere la mostra, ma non è l’ultima e non positiva. Francesco Prosperetti, direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici della Calabria, organo del ministero, osserva nelle pagine del catalogo di solito destinate ad essere saltate di istinto, che la condizione di gran parte dei musei, aree archeologiche, del paesaggio in cui si insediarono gli antichi coloni "non è certo tale da consentire la percezione reale del fenomeno". E mancata nelle pubbliche amministrazioni la consapevolezza che la memoria degli antichi Greci nel Meridione d’Italia "può rappresentare una grande risorsa di civiltà e cultura". Prosperetti suggerisce di far diventare i siti archeologici, i musei, parte organica degli spazi e luoghi del "vissuto contemporaneo", integrati "nel sistema delle risorse e degli attrattori del territorio". Allora questa mostra, centrata sulla riscoperta della Magna Graecia dal Settecento in qua, può far ripartire la riscoperta moderna della Magna Graecia. L’emozione più grande.
(Goffredo Silvestri)
Notizie utili - "Magna Graecia. Archeologia di un sapere". Dal 19 giugno al 31 ottobre. Catanzaro. Complesso monumentale di San Giovanni. A cura di Salvatore Settis con il coordinamento scientifico di Maria Cecilia Parra; realizzata secondo il progetto scientifico della Scuola Normale Superiore di Pisa, in collaborazione con Electa. Promossa dall’università Magna Graecia di Catanzaro con il sostegno della Regione Calabria e il contributo della Fondazione Monte dei Paschi di Siena. Catalogo Electa.
Orari: 9,30-13 / 17-21,30 martedì, mercoledì, giovedì; 9,30-13/ 17-23 venerdì, sabato, domenica e festività locali. Lunedì chiuso.
Biglietti: intero 6 euro; ridotto e ridotto gruppi 4; gruppi scuole: 3; gratuito oltre 65 anni e studenti università di Catanzaro. Informazioni, prenotazione e prevendita biglietti: Agenzia Chronos 096179266; numero verde 800-557977; info@organizzazionechronos.it
Fonte: http://www.kwart.kataweb.it/kwart/ita/index.jsp
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